Il mio primo approccio con la fantascienza prese la forma di Robbie, il primo dei racconti brevi contenuti nella raccolta Io Robot di Asimov. Si potrebbe dire che iniziai col botto, e devo essere sincero nell’ammettere che più passa il tempo più me ne convinco sempre di più; Robbie può sembrare un racconto semplice, una fiaba senza grandi derivazioni etiche o morali, ma in realtà cela nel rapporto tra la famiglia Weston e Robbie una potente allegoria di ciò a cui potremmo andare incontro in un futuro non troppo lontano.

Parlare di fantascienza è fuorviante o troppo onirico? Non credo: uno dei meriti di questo genere letterario è quello di averci abituato e incuriosito gradualmente nei riguardi di ciò che il futuro ci potrà riserbare, nel bene o nel male, e uno dei campi principali in cui questa dualità di vedute si declina in decine e decine di rami diversi è proprio la robotica.

Perchè Robbie viene mandato via dagli Weston? ci sono motivazioni, cause o eventi ben precisi? No, si tratta di una preoccupazione derivata da una sorta di “razzismo” cautelativo diretto verso le macchine e le loro menti insondabili per una piccola e tranquilla famigliola americana. Non giudichiamo gli Weston troppo in fretta però: chi non sarebbe spaventato nell’affidare la figlia di 8 anni ad una macchina potenzialmente in grado di ferirla gravemente, o addirittura ucciderla? Ed è qui che viene a galla il grande problema di cui dovremo occuparci in futuro, ovvero la pericolosità delle macchine.
Può sembrare riduttivo pensare solo a questo aspetto della nostra futura convivenza con le intelligenze artificiali, ma è un mio personale convincimento che la questione “violenza” sarà determinante nell’influenzare la velocità alla quale si arriverà a macchine sempre più complesse.

E’ ormai chiaro che non stiamo parlando dei placidi pulitori automatici a malapena in grado di evitare scalini o gatti troppo curiosi: le macchine di cui stiamo ora sono solo prototipi, calcolatori in grado di simulare il nostro modo di pensare e agire. Ma se diamo ad una macchina la capacità di pensare come noi, di accumulare esperienze e di prendere decisioni basandosi su di esse, non la stiamo forse fornendo di una indole? E questo dono, questa “mitologica” consegna della capacità di pensare autonomamente, ha sempre esiti positivi? Pensandoci bene, con noi esseri umani non è andata proprio benissimo.

Ognuno di noi è diverso grazie a ciò che ha sperimentato durante la sua vita, all’educazione ricevuta e alle compagnia frequentate: questa diversità è il nocciolo fondante dell’umanità, ma potrebbe non esserne la caratteristica esclusiva, o addirittura potrebbe non essere programmabile a meno di invalidare profondamente le capacità cognitive della macchina in questione. Una volta dotata di pieno controllo sulla sua mente (per quanto rudimentale), come potrebbe la macchina in questione non iniziare a farsi delle opinioni in merito al mondo? Bisognerebbe blindare questa mente acerba, ma allora non potremmo più parlare di una inteligenza artificiale completa. A nessuno piace pulire per terra o lavare i piatti, e dunque perchè dovrebbe piacere ad un robot dotato di pensiero proprio? Cosa succederebbe il giorno in cui questa macchina, creata e vissuta (sarebbe giusto usare questo termine? Io credo di si) sempre e solo per eseguire ripetitivi compiti di manutenzione domestica, scoprisse in realtà che fuori dalle mura domestiche si estende un mondo di infinite possibilità ed esperienze? Potrebbe reagire bene o male, dato che ha un indole e dei pensieri autonomi. Asimov risponde a questo bisogno di sicurezza con le tre leggi della robotica, ma in questo modo stiamo “condizionando” le macchine eliminando definitivamente la possibilità di donare loro un vera e propria capacità decisionale completa. Il robot che Gloria incontra durante la visita al museo di New York è imbrigliato da una intelligenza limitata, talmente invalidante da causargli una fusione davanti alla possibilità di non essere l’unico robot esistente sulla terra: per tutelare la nostra sopravvivenza saremo costretti a dare vita (ancora questo termine, ma credo di non averne altri più approriati) solo a macchine del genere?

La storia ci insegna che non siamo inclini a scoperte lasciate a metà, a lasciare rami di ricerca inesplorati per quanto pericolosi: un robot che pensa come un uomo prima o poi vedrà la luce, parlerà con noi e imparerà a conoscerci, magari durante una grandiosa diretta web con decine di meravigliate quanto spaventate famiglie Weston incollate ai loro computer. Dobbiamo solo sperare che ci trovi simpatici.